La violenza invisibile sulle donne durante il lockdown
Secondo l’Onu, i casi mondiali sono cresciuti del 20% durante i mesi più duri dell’emergenza. Ne parliamo con Marcella Pirrone, presidente della rete europea Wave, e con Concetta Schiavone, psicologa in un centro antiviolenza nel Sud Italia
Una pandemia nella pandemia. Più silenziosa, invisibile agli occhi dei più, nascosta tra quelle mura di casa diventate ancora più pericolose della minaccia del virus. Mentre il mondo esplodeva, la violenza sulle donne è aumentata senza clamore ma in modo considerevole durante il primo lockdown. Proprio all’intero dei confini domestici che hanno funzionato come protezione per tanti altri, diventati invece per molte donne una costrizione che ha finito per esacerbare i comportamenti violenti dei loro partner. “Perché di questo si tratta: violenza domestica all’interno di una intimate partnership, che ha lasciato tutti sotto choc – dice Marcella Pirrone, avvocata della rete D.i.Re e presidente di WAVE, Women Against Violence Europe, la Rete europea dei centri antiviolenza che raccoglie 140 organizzazioni in 46 paesi –. Tutti abbiamo dovuto di colpo provare a organizzarci in modo diverso, in una società che improvvisamente non c’era più. E le donne in pericolo hanno dovuto fare questa scelta: tra la paura del virus e le violenze”.
Già a giugno un rapporto dell’Onu denunciava come la quarantena forzata avesse causato un aumento degli abusi sulle persone più vulnerabili, donne e minori. La situazione si è ulteriormente aggravata con la tensione legata all’incertezza economica scaturita dall’emergenza sanitaria. Risultato: aumento di tensione nelle case, con le donne che, con i movimenti limitati, hanno dovuto fare i conti con maggiori difficoltà a chiedere aiuto e a organizzare una fuga. L’allarme è stato lanciato da ogni parte del mondo: secondo l’Onu, quest’anno sono previsti almeno 15 milioni in più di casi di violenza domestica (dato elaborato dall’Unfpa, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, in collaborazione con Avenir Health, Johns Hopkins University e la Victoria University), ipotesi che si tradurrebbe in una crescita di casi del 20% nei primi tre mesi di lockdown in tutti i 193 stati membri delle Nazioni Unite. A corroborare questi dati arrivano anche le prime elaborazioni nazionali: in Italia per esempio, l’Istituto nazionale di statistica (Istat) ha preso in esame le chiamate al numero antiviolenza 1522 e ha registrato un incremento delle richieste d'aiuto del 73% durante il lockdown rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. “Raccogliere dati in quel momento era quasi impossibile – continua Pirrone –. Eravamo nel pieno dell’emergenza, nel caos totale. E tutti gli sforzi si sono concentrati nell’impegno per trovare nuove soluzioni per aiutare le donne. I centri antiviolenza hanno lanciato subito l’allarme per contrastare la sommersione della violenza che sembrava inevitabile in quel momento. Da lì è partito un dialogo con le istituzioni e con le forze dell’ordine e sono state create regole d’eccezione: ogni donna vittima di violenza poteva quindi andare in ospedale o in un centro. E anche le modalità dei centri per mettersi in contatto con loro sono cambiate: online, meno tracciabili, 24 ore su 24”.
A Casal di Principe, piccolo Comune in Campania, nel sud Italia, c’è un centro antiviolenza per donne maltrattate chiamato Casa Lorena. Nato nel 2012 all’interno di un immobile confiscato alla camorra grazie a un’iniziativa del Consorzio Agrorinasce e della Cooperativa E.V.A., ogni anno accoglie in media 60 donne, tra quelle ospitate e le utenti esterne. Quest’anno, ad oggi, il numero è già salito a 78, ma più di 20 persone non hanno potuto accedere alla struttura per problemi di capienza, ridimensionata per via delle misure di sicurezza anti-Covid. “A marzo, all’inizio del primo lockdown, le richieste d’aiuto sono calate di colpo – racconta Concetta Schiavone, psicologa di Casa Lorena –. Era la paura della situazione esterna, che nessuno sapeva come gestire. Nel giro di pochi giorni però le donne sono tornate a farsi vive chiedendo ospitalità con urgenza. Avevano già iniziato a vivere tutto il ciclo della violenza in un giorno solo: violenza, le scuse dell’uomo violento, e poi ancora violenza”. Così a Casa Lorena, insieme a tutti i centri gestiti dalla Cooperativa E.V.A che segue circa 1200 donne, operatrici e psicoterapeute si sono subito attrezzate per escogitare nuovi modi per aiutare le donne in difficoltà. Gruppi criptati su Whatsapp, chiamate via Skype, ma anche uno sforzo in più per riuscire ad accoglierle senza rischiare il contagio e garantire al contempo lo sviluppo del delicato percorso che porta alla rottura del rapporto violento. “Si tratta di un processo basato sulla fiducia e sull’empatia tra donne – prosegue la dott.ssa Schiavone –. Ogni persona accolta a Casa Lorena sceglie da quale operatrice vuole essere seguita sulla base di un’affinità che percepisce durante la prima settimana di incontri. Con lei decide tutti gli step successivi: se separarsi o no, come sporgere la denuncia, cosa fare con i figli. Questo metodo basato sulla relazione femminile è fondamentale per iniziare un processo di consapevolezza e liberarsi dal senso di colpa che attanaglia molte vittime della violenza, oltre a tutta una serie di difficoltà psicologiche legate alla stessa ammissione di essere una vittima”.
Ad ostacolare ulteriormente le donne che vogliono distaccarsi dal partner violento c’è anche un altro problema molto concreto: molte di loro non lavorano e non sono quindi autosufficienti. Specialmente in zone come quella di Casal di Principe, dove l’occupazione femminile è minima. Distaccarsi in questo modo diventa ancora più complicato. “Siamo sempre lì, al limite delle risorse personali e strutturali – commenta Marcella Pirrone –. Le donne hanno meno possibilità di progettare: uscire da una situazione di violenza significa progettare una serie di cambiamenti. Ma se sei a casa, i tuoi figli sono a casa, il lavoro è incerto, come fai? Hai anche questo peso da reggere. La verità è che oggi paghiamo problemi strutturali che stanno aggravando la situazione in questa emergenza”. Con buona parte dell’Europa di nuovo in lockdown, queste preoccupazioni sono tornate a farsi sentire nei centri antiviolenza e tra le donne. Con alcune novità: a Casa Lorena, per esempio, stanno tornando donne che erano incerte sul da farsi durante il primo lockdown, ma che oggi alla luce dell’esperienza pregressa sono più decise a chiedere aiuto. Segno di una maggiore consapevolezza e di una volontà di reagire più tempestivamente, certo, che tuttavia continuano a scontrarsi con una serie di lacune. Le riassume così la presidente di Wave: “I centri antiviolenza hanno pochissime risorse e molto personale è formato non da professionisti ma da volontari, che quindi vanno formati. Il governo italiano aveva addirittura bloccato i fondi per i centri nel 2019, ma grazie a un’istanza di Di.Re arriveranno, pare, a marzo 2021. Le organizzazioni sono più preparate rispetto a otto mesi, ma c’è in generale più consapevolezza di questo problema? A parole sì, a fatti no. Se continuiamo a vedere le donne in casa a reggerne la cura, è chiaro che passi in avanti non ne sono stati fatti in modo particolare”. Che fare quindi per prevenire un’altra ondata eccessiva di violenze? “Ora più che mai bisogna essere presenti e proporre soluzioni creative. Non solo nella diffusione del messaggio, ma con colloqui in tempi e modalità non convenzionali, che si adattano alla singola situazione della donna. I centri antiviolenza stanno già facendo in tutta Europa un grande lavoro, mettendosi in rete e scambiandosi best practices. Noi come Wave stiamo portando avanti un lavoro di lobbying con i politici a livello europeo: il Next Generation Eu non deve perdere di vista il sociale. La vita delle donne in pericolo non deve essere dimenticata”.